Cronaca di una mattina di mezzo settembre
Cronaca di una mattina di mezzo settembre

Cronaca di una mattina di mezzo settembre

Cronaca di una mattina di mezzo Settembre

Solo i folli non sanno vedere i confini del possibile. E pure dell’impossibile, mi permetto di aggiungere, con la modestia che mi deriva da una surreale mattina trascorsa nella capitale Torinkien.

 

In capitale ci vado poco e malvolentieri, non perché non sia bella, anzi, qui respiro aria sabauska anche se cittadina a pieni polmoni e mi slucido gli occhi davanti alle vetrine del centro, ma perché alla fine mi sento un po' in soggezione e devo agganciare la giornata ad un ritmo che non è più il mio.

Però al lavoro non si dice mai di no, così insieme ad Aaron andiamo a raccogliere il racconto di fatti e persone legati a ricordi di un po' di anni fa, direttamente dalla testimonianza di una distintissima signora che chiamerò Madama Crimea.

Ci siamo accordati, Aaron ed io, per registrarla e filmarla. Chi fa cosa, ce lo giochiamo in auto, come al solito io in preda all’ansia, che smorzo mangiando in continuazione stile criceto e infine cerco di annegare definitivamente stilando l’elenco delle cose che faremo.

Proprio nell’ordine preciso preciso. Aaron sa per esperienza che il foglio a quadretti è la mia ancora di salvezza e mi lascia bofonchiare tra una nocciolina e l’altra.

Il primo ostacolo è il campanello digitale: noi in campagna di digitale abbiamo solo le impronte che restano sui vetri delle porte finestre, per cui la prima sensazione dopo l’ansia del tragitto è la meraviglia del pacioccare tra i menu delle scale, dei piani e dei campanelli. Ci salva da noi stessi la portinaia, che mi impedisce di suonare a caso a mezzo palazzo e come moderna condottiera ci spedisce all’appartamento giusto.

Et voilà, ci siamo, ora tocca a noi.

Io mi ripasso le domande, Aaron gli appunti per le riprese forniti da un caritatevole regista torinese amico nostro.

Poi iniziamo, facendo tutto il contrario del previsto.

Madama Crimea, bellissima in un vestito estivo azzurro e piega fresca di parrucchiera inizia un discorso che prosegue in apnea per un tempo indefinito. Io sorrido, cercando di governare la barca delle risposte tra i flutti degli incisi, e poi accade che la sorte si ricorda che siamo due folli che fanno un mestiere che non è il loro e si vendica.

Bisogna doverosamente dire che Madama abita in un lussuoso palazzo pieno di uffici, così come di uffici sono praticamente pieni tutti gli immobili che lo circondano. Quasi tutti.

La seconda doverosa precisazione è che io sono appollaiata su uno sgabello davanti alla esimia, e vedo dritta davanti a me la finestra dei vicini, chiusa con quelle meravigliose gelosie sabauske che tanto mi piacciono.

Detto fatto, il fato entra in azione e la finestra si spalanca materializzando nel riquadro esattamente davanti a me l’uomo di Vitruvio. Solo con mutante e tatuaggi.

My goodness. Mi cade un attimo la mascella e sento nascere malefica e inopportuna una ridarola poco professionale. Non vedo Aaron, quindi non so se abbia colto o meno l’apparizione del muscoloso vicino, e perdo almeno un semestre di vita nel riportare lo sguardo sulla mia ospite.

Ma non finisce qui, perché il discorso prosegue e dopo il racconto delle gioie e degli entusiasmi, viene aperto il reparto black memories. Nel dramma del chi fu, riappare il mio alfiere del buon umore, solo dal lato B, e io invecchio precocemente per la seconda volta nello stesso giorno.

Ma povero, lui è nel suo, suo di bagno intendo, che è prospiciente al salotto buono dove siamo noi.

Nel racconto di Crimea, per oggettivi limiti naturali, manca la parte della resurrezione; esauriti i trionfi, le calamità, i vivi e i morti, alla fine ci siamo detti tutto ed è arrivata liberatrice l’ora del congedo.

Stipo tutto nella borsa, ridiscendiamo dall’empireo fino al piano portineria e finalmente mi accoglie la sicurezza dell’auto di Aaron.

Sia io che lui troviamo conforto nei piccolissimi problemi: trovare l’uscita dal parcheggio, dove ho messo l’accendino, cosa ci aspetta al lavoro.

Usciamo dal gruppo dei folli per rientrare a piccoli passi nel quotidiano conosciuto.

Fino alla prossima volta, temo.

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